Qual è la relazione tra l'arte e il videogioco?
Cosa succede a un video game quando perde il game?
Quali sono le caratteristiche di un "film videoludico"?
Machinima. Dal videogioco alla videoarte tenta di rispondere a queste e altre domande grazie al contributo di artisti e accademici, studiosi e praticanti.
Situando il machinima nel contesto dell'arte contemporanea e, in particolare, della videoarte, questo libro propone un'interpretazione innovativa di un fenomeno complesso, affascinante, ma talvolta incompreso.
Machinima. Dal videogioco alla videoarte a cura di Matteo Bittanti
Editore: Mimesis
Collana: Eterotopie
Data di pubblicazione: 19 ottobre 2017
Lingua: Italiano
Pagine: 200, con illustrazioni in bianco e nero
ISBN-10: 8857542157
ISBN-13: 978-8857542157
Prezzo: 18 euro
MENZIONI
Jonathan Bilski, Things To Do in LA.
Nic Cha Kim, Niche Los Angeles.
INTRODUZIONE
Machinima. Dal videogioco alla videoarte propone otto riflessioni inedite per l’Italia di studiosi internazionali sul tema dell’intersezione tra video game e arte contemporanea, suddivise in due sezioni: Teorie e Pratiche. La prima include quattro saggi seminali pubblicati tra il 2006 e il 2010 che forniscono cornici teoriche, modelli interpretativi e strumenti ermeneutici. In breve, delle panoramiche (overviews). La seconda consiste in quattro letture ravvicinate (close reading) di opere di altrettanti artisti: Rewell Altunaga, Jon Rafman, Philip Solomon e Bill Viola. L’obiettivo di Machinima. Dal videogioco alla videoarte è illuminare alcuni aspetti chiave di un fenomeno artistico ibrido e mutante, generalmente frainteso, spesso sottovalutato, talvolta ignorato dalla critica.
Il machinima è una forma espressiva relativamente recente. Audiovisivo digitale ottenuto grazie all’appropriazione e alla successiva manipolazione di un videogioco, il machinima rigetta la caratteristica essenziale del testo originale: l’interattività. Come tale, è più video che gioco. Al tempo stesso, presenta caratteri meta-ludici: è uno dei modi attraverso cui gli artisti giocano con il medium digitale. Il machinima è, a tutti gli effetti, un gioco video.
Nel contesto degli studi videoludici – altrimenti noti come game studies – le origini del machinima sono solitamente ricondotte alle pratiche di hacking di un gruppo ristretto di utenti. Questa interpretazione è avallata, in particolare, da studiosi come Henry Lowood e Michael Nitsche (1). Tuttavia, una simile mitopoiesi enfatizza, talvolta feticizza, la componente squisitamente tecnica del medium, relegando il machinima alla dimensione del fandom. Inoltre, ignora una storia parallela parimenti importante, che vede come protagonisti artisti come Miltos Manetas, Cory Arcangel, Brody Condon, Eddo Stern che a partire dalla seconda metà degli anni Novanta hanno perseguito un’innovativa sperimentazione. Le attività di questi praticanti sono delle “anomalie” che mettono in crisi il paradigma interpretativo dominante. Un’esegesi alternativa (Bittanti, 2013, 2016) riconduce il machinima alla videoarte e dunque a una tradizione che precede l’avvento del videogioco. Rigettando il paradigma dominante nei game studies, questa interpretazione si colloca all’intersezione tra la critica dell’arte e gli studi sui new media (2).
Anche se entrambe le narrazioni citano come anno zero del machinima il 1996, la selezione dei "pionieri" non potrebbe essere più diversa. Nell'interpretazione "artistica", la genesi del fenomeno coincide con la presentazione di Miracle da parte di Miltos Manetas nella mostra collettiva Joint Ventures. Per l'evento curato da Nicola Bourriaud alla Basilico Gallery di New York, l’artista di origini greche aveva catturato in video alcune sequenze del simulatore di volo per Macintosh F/A 18 Hornet, trasferendole successivamente su DVD e proiettandole in loop. In Miracle, un jet da combattimento che scivola sull’acqua invece di affondare nell’oceano. La disarmante semplicità del gesto appropriativo non ne sminuisce in alcun modo la sottesa genialità concettuale. Miracle non è un ready–made, un objet trouvé o found footage perché la sua produzione ha richiesto all'artista un significativo sforzo trasformativo.
Miltos Manetas, Miracle, 1996
Al termine di una sperimentazione durata all'incirca un decennio, il machinima in quanto genere dotato di un proprio statuto, estetica, convenzioni e stili si sviluppa nel contesto artistico in modo sostanzialmente autonomo rispetto alla sfera ludica e dunque lontano dal fandom, dal vernacolare, dalla pop culture. Non a caso, i canali di diffusione e circolazione privilegiati non coincidono necessariamente con YouTube o Vimeo, bensì con gli spazi del White Cube, i circuiti del cinema sperimentale, le rassegne di videoarte mondiali e i festival d'arte digitale. Gli sforzi di artisti internazionali, geograficamente dispersi, ma collegati in rete, variano nella forma e nei contenuti, oscillando tra il film sperimentale e l’avanguardia, l’installazione e il microcinema.
Lo sviluppo del machinima è stato favorito dalla diffusione di tecnologie videoludiche a basso costo, come le console e i personal computer. Questo fenomeno è paragonabile all'uso di macchine da presa leggere, relativamente economiche, nella seconda metà degli anni Sessanta, da parte di pionieri Nam June Paik e Andy Warhol. In questo senso, la serie di Miltos Manetas, Videos After Videogames (1996–2006) – in gran parte realizzata per mezzo di una console Sony PlayStation 2 – è importante per la storia del machinima quanto le opere di Paik realizzate con la cinepresa Sony Portapak trent'anni prima per quanto concerne la storia della videoarte.
Il machinima è un processo e un prodotto identificati da un prefisso - “ri” - che comunica tanto un rinnovamento quanto una ripetizione. Si tratta, infatti, di un rilancio e riciclo, di una ricreazione e ricostruzione, di una rianimazione e rigenerazione di un testo esistente. Fare machinima significa praticare l’interdisciplinarietà, integrando un ventaglio di media differenti sotto l’egida del digitale. Il machinima è il frutto di tattiche come l’appropriazione, la manipolazione e la sovversione di artefatti esistenti. In alcuni casi, è associato al détournement e al culture jamming. Presenta uno statuto paradossale. Da un lato è una forma espressiva parassitaria: non potrebbe esistere senza videogiochi, ergo la definizione di opera derivata usata nel contesto legale, specie in relazione alla proprietà intellettuale. Inoltre, si tratta di una rimediazione (3) multimediale che sussume il cinema, il video, la fotografia, ma anche il disegno, la pittura, l’animazione, la simulazione, la computer grafica e il teatro delle marionette. Detto altrimenti, il machinima ricombina. D’altra parte, è un artefatto inedito: conserva alcuni elementi del contesto originale, ma al tempo stesso introduce un nuovo linguaggio. Per esempio, presenta molte caratteristiche del cinema espanso (4) concettualizzato da Gene Youngblood (1970). Secondo il teorico americano, il computer, il video, la realtà virtuale, l’olografia, e più in generale le tecnologie elettroniche, “espandono il cinema” creando forme espressive che introducono modalità di produzione, fruizione, distribuzione e condivisione estranee al cinema convenzionalmente inteso. Così facendo, aprono orizzonti teorici, culturali, estetici, sociali ed economici alternativi. Nel quarto capitolo, “Cinema cibernetico e film al computer”, Youngblood prefigura l’avvento di un nuovo genere di audiovisivi elettronici che fanno a meno delle riprese in luoghi fisici e reali, sfruttando le capacità di calcolo della macchina per visualizzare scenari e set iperrealistici (5). In quanto espressione della cultura elettronica, il machinima è tanto una tecnica quanto un artefatto espanso, come attesta la pratica di Chris Marker, Phil Solomon, Craig Baldwin (6) e Peggy Ahwesh (7).
Nel saggio “Machinima: il videogioco come forma d’arte?”, Martin Picard (2006) s'interroga sullo statuto artistico del medium. Secondo Picard, questa forma espressiva mutante attesta una rottura e, al tempo stesso, una continuità con i media audiovisivi precedenti. Leo Berkeley (2006) esamina le caratteristiche di convergenza di un artefatto culturale che si colloca al crocevia tra videogiochi, cinema e rete. Orientato al futuro, ma allo stesso tempo rivolto al passato, il machinima sfrutta i motori tridimensionali dei videogiochi per creare racconti audiovisivi di natura lineare. Secondo Berkeley, gli aspetti più intriganti di questa forma espressiva non riguardano tanto il prodotto ottenuto quanto il processo creativo, segnato da aspetti di incertezza, approssimazione e ambivalenza. Berkeley riconduce il machinima al modding, ovvero alla modifica del software da parte di utenti esperti. Nello specifico, i modders manipolano direttamente il codice o il motore dei videogiochi per trasformare l’esperienza di gameplay. Se per Joseph Beuys oggi chiunque è un artista, per i praticanti del machinima, oggi chiunque può diventare un regista. Per Berkeley, questa aspirazione utopica è simultaneamente confermata e sconfessata dai limiti tecnici, culturali ed estetici del mezzo.
Elijah Horwatt propone un’affascinante tassonomia, individuando nel machinima numerosi aspetti dell’arte sperimentale e d’avanguardia. Nel suo contributo, discute le proprietà estetiche e ideologiche di questa forma espressiva attraverso la nozione di genere. Horwatt invita a ripensare la natura del machinima, evidenziando gli intenti squisitamente artistici di molti autori.
Infine, la studiosa canadese Cindy Poremba esamina con un approccio comparativo le differenti retoriche associate alla già citata modifica dei videogiochi (modding) ivi declinata in chiave artistica. Il saggio propone un’analisi approfondita di Adam Killer (1999), un'opera seminale di Brody Condon che esemplifica la complessità tecnica e concettuale degli art mod, un artefatto in bilico tra la produzione vernacolare e l’avanguardia.
Nella seconda parte, Pratiche, sono proposti quattro studi di caso incentrati su altrettanti artisti che si cimentano con i videogiochi: Rewell Altunaga, Jon Rafman, Philip Solomon e Bill Viola. Queste indagini, sviluppate da studiosi che spesso affiancano alla ricerca accademica una pratica artistica o di curatela, portano in primo piano istanze chiave dell’arte videoludica. Una di queste è che gli artisti ignorano deliberatamente le regole e il funzionamento del videogioco, sovvertendo tanto le modalità d’uso definite dai progettisti quanto le sottese ideologie. Detto altrimenti, laddove il machinima videoludico svolge spesso una funzione promozionale nei confronti del prodotto videogioco, quello artistico si pone spesso in posizione critica, oppositiva. In molti casi, il machinima opera contro l’apparato videoludico, per usare un’espressione di Vilém Flusser (8). Inoltre, in quanto “profanazione” del videogioco, può essere paragonato a ciò che Giorgio Agamben definisce un contro-dispositivo (9).
Genevieve Yue descrive il complesso rapporto intertestuale tra Phil Solomon e Andy Warhol, autori di EMPIRE (2008–2012) ed Empire (1964) rispettivamente, due opere in bilico tra il cinema e la videoarte. Rachel Price propone un confronto parimenti interessante: quello tra la pratica del cubano Rewell Altunaga e dello statunitense Cory Arcangel. Nel mio saggio, esamino la produzione machinima del canadese Jon Rafman servendomi delle suggestioni di Flusser e William Gibson. Infine, Tracy Fullerton illustra il processo di creazione del primo – e finora unico – videogioco dell’artista americano Bill Viola, The Night Journey, tutt’ora in fase di sviluppo, ma già proposto in numerose mostre collettive e personali, festival e rassegne. L’artefatto work-in-progress, incompleto eppure già fruibile, aggiornabile grazie a un update, esemplifica sotto molti aspetti la natura dell’opera d’arte nell’era della riproducibilità digitale.
Alcuni artisti usano il machinima per riflettere sullo specifico del medium videoludico, per criticarne la sottesa ideologia, ma anche per celebrarne gli aspetti meno ovvii. Per altri, il machinima è un epifenomeno del momento contemporaneo, specie nelle sue manifestazioni più simulacrali. Privilegiando un approccio tematico anziché meramente storiografico, Machinima. Dal videogioco alla videoarte offre ai lettori molteplici chiavi di lettura di un processo/prodotto della new media art.
Buona lettura,
Matteo Bittanti
NOTE
1. Cfr. Lowood, Henry & Nietsche, Michael (Eds.). The Machinima Reader, Cambridge, Massachusetts, MIT Press, 2011; Michael Nitsche, Video Game Spaces, Cambridge, Massachusetts, MIT Press, 2008.
2. Cfr. Matteo Bittanti (A cura di), MACHINIMA. 32 conversazioni sull’arte del machinima, Concrete Press, San Francisco, 2017; Matteo Bittanti e Vincenzo Trione (A cura di). GAME VIDEO/ART. A SURVEY, Silvana Editoriale, Milano, 2016; Matteo Bittanti e Henry Lowood (A cura di). Machinima! Teorie, pratiche, dialoghi, Edizioni Unicopli, Milano, 2013.
3. Per rimediazione s’intende l’incorporazione di un medium in un altro, ovvero l’utilizzo di alcune caratteristiche tipiche del primo all’interno di un altro. Il termine è stato coniato dagli studiosi americani Richard Grusin e Jay David Bolter in Remediation. Competizione tra media vecchi e nuovi (Guerini e Associati, 2000). Questa teoria sviluppa un’intuizione di Marshall McLuhan secondo cui “Il contenuto di un medium è sempre un altro medium”, formulata negli Strumenti del comunicare (1964) e, prima ancora, di Walter Benjamin, secondo cui i contenuti di un medium prefigurano quelli del medium successivo, introdotta nel saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936).
4. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1970, il volume di Youngblood è arrivato in Italia solo nel 2013, grazie alla curatela di Pier Luigi Capucci e Simonetta Fadda e ai tipi di Clueb. Gene Youngblood, Expanded cinema, Clueb, Milano, 2013. Youngblood è stato il primo a proporre la tesi che il video rappresenta un’espressione artistica compiuta ed è considerato uno dei padri spirituali delle media arts.
5. Cfr. Gene Youngblood, Expanded Cinema, P. Dutton & Co., Inc., New York, 1970, pp. 194-206.
6. Baldwin è stato uno dei tra i primi artisti a utilizzare un videogioco per un’opera di videoarte, nello specifico Wild Gunman (1978), che incorpora, tra le altre cose, alcune sequenze tratte dall’omonimo videogioco da sala progettato da Gunpei Yokoi e distribuito nel 1974 da Nintendo. Con Wild Gunman, Baldwin decostruisce l’ideologia della mascolinità negli Stati Uniti, il mito del West e l’imperialismo culturale statunitense appropriandosi e rimontando sequenze tratte da film, cartoni animati, pubblicità, telefilm e riprese televisive, oltre ai videogiochi.
7. La videoartista Peggy Ahwesh è l’autrice del seminale She Puppet (2001), un cortometraggio di quindici minuti realizzato attraverso l’appropriazione di alcune sequenze del videogioco Tomb Raider. L’opera tematizza l'identità e il ruolo della tecnologia attraverso il simulacro Lara Croft.
8. Cfr. Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 2006.
9. Cfr. Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006, p. 28.