La ricerca artistica di Luca Miranda esamina la relazione tra realtà e simulazione, l’avatar come entità estetica e le correlate dimensioni testuali e visive. Centrale, nella sua pratica, è l’analisi critica delle meccaniche videoludiche, insieme alla riflessione sui concetti di immersione, identificazione ed interpassività. In particolare, Miranda investiga la figura dell’avatar all’interno della cultura contemporanea. Nel 2016 ha conseguito una Laurea di primo livello al D.A.M.S. dell’Università di Bologna e nel 2019 una Laurea Magistrale in Televisione, Cinema e New Media presso l’Università IULM di Milano. Dal 2018 è membro e cofondatore del collettivo artistico milanese Eremo. Il suo primo libro, una disamina critica e poetica del walking simulator, sarà pubblicato nel 2021.
Matteo Bittanti: Puoi descrivere il processo creativo dietro a Cheatimerism? Hai utilizzato dei mods oppure, come suggerisce il titolo, dei cheat mode? Perché
Luca Miranda: Volevo inizialmente indagare i meccanismi e le modalità visuali con le quali il videoludico rappresenta i tropi del consumo e del libero mercato, agendo all’interno di un ecosistema per poi modificarlo. Sin dall’inizio scelsi il videogioco Grand Theft Auto V, poiché sintetizza efficacemente (nonostante la sua ampiezza) il rapporto paradossale che esiste tra simulazione, rappresentazione e consumo. Inizialmente mi rivolsi alle mods: volevo “rompere” il gioco rimuovendo i modelli 3D presenti nella mappa, lasciando solamente terreni e l’avatar usato dal giocatore. Avevo in mente il lavoro Super Mario Clouds (2002) di Cory Arcangel ma, piuttosto che compiere questo tipo di rimozione, la mia intenzione era quella di mantenere l’avatar principale, facendolo vagare tra i resti dell’inarrestabile processo dei liberi mercati: uno stato di saturazione merceologica e di intrattenimento talmente compatto da risultare invisibile, come una mappa svuotata di ancoraggi significanti. Successivamente lasciai perdere, non tanto per questioni tecniche (il Web è pieno di tutorial da cui attingere e GTA V ha un’enorme community di modders), quanto concettuali. Nella mia mente iniziava a farsi largo un’idea più legata all’ingombro e all’addizione, anziché allo sgombro e alla rimozione, tuttavia ero concentrato su modalità e idee ancora troppo complesse. Fino a che, vagabondando per il gioco, mi resi conto del potenziale legato all’uso del cheat. Nella serie GTA è storicamente possibile fare uso di cheat per ottenere vantaggi come l’ottenimento di tutte le armi del gioco o il recupero di punti vita. Tra le altre cose, il cheat che più mi ha interessato è quello relativo allo spawn di automobili. Inizialmente ignoravo si potesse re-spawnare più volte lo stesso veicolo: pensavo che il modello venisse sostituito nell’immediato da uno nuovo. Questo fu il dato che mi illuminò, poiché avevo a disposizione, da un lato, uno degli oggetti par excellence del consumismo – l’automobile – dall’altro una modalità attuativa interna al sistema, un elemento, quest’ultimo, che ho preferito rispetto all’uso di mods. Mi spiego: cheat e modding non solo hanno genealogie specifiche, ma hanno anche caratteristiche e attributi di valore distinti. Di fatto, laddove il modding agisce esternamente e internamente contro il sistema, il cheat è una funzione interna che agisce sotto autorizzazione del sistema. Il modding è “l’altro negativo” di cui parla il filosofo Byung-Chul Han (2020), una sorta di azione batterica che contrasta l’equilibrio immunologico del politico e del sociale, mentre il cheat rappresenta l’output di ciò che Han definisce “la società della performance”. Essa chiede di eccedere divertimento e consumi, fornendoti direttamente gli strumenti necessari allo scopo. Il respawn di auto esemplifica la saturazione e l’obsolescenza degli scopi. È possibile vedere un meccanismo simile in altri giochi in cui si può fare uso di cheat. Il famoso “rosebud” da digitare in The Sims 2 (2004) per avere denaro infinito ne è un esempio. Il potere d’acquisto generato non “rompe” o “rovina” il gioco, come si potrebbe subito pensare, ma ingenera un altro tipo di processo legato all’uso e abuso del capitale.
Luca Miranda, Cheatimerism, digital still, 1920 x 1080, 2020
Matteo Bittanti: Cheatimerism è un machinima e insieme un'operazione di fotoludica. Come ti relazioni a questi due generi, ovvero alla post-fotografia e alla video arte declinate in chiave videoludica? Nel caso di Cheatimerism, a quale tipo di produzione audiovisiva ti sei ispirato?
Luca Miranda: La relazione tra post-fotografia, immaginario e il reame del videoludico è assolutamente interessante. Il post-fotografico tende o desidera generalmente mettere in discussione le concezioni più diffuse sulla fotografia, ovvero come deve relazionarsi col mondo e cosa può essere fotografico e cosa no. La fotografia non acquisisce direttamente il reale ma ne riproduce una rappresentazione simbolica, come lo fa anche una simulazione. Fotografare è un atto di esclusione che, in ogni caso, manipola l’acquisizione del mondo. Il “post” della post-fotografia, a mio dire, riguarda anzitutto la messa in discussione dell’idolo fotografico (idolo in senso etimologico), del reale come condizione prediletta. È sintomatico di quanto Jean Baudrillard disse a proposito di Disneyland e dell’America: il primo così eccessivo da risultare molto più credibile e realistico (in tal senso) dell’America stessa. I videogiochi e i media digitali contraddistinti da uno scopo ludico non sono mondi separati dal nostro, dove pratiche, atti e professioni che compiamo nel mondo “reale” divengono semplici divertissement. I videogiocatori scattano foto coi propri dispositivi, coi propri avatar e con le proprie camere digitali all’interno dei luoghi virtuali che esplorano per motivazioni e scopi differenti. Semplice curiosità, divertimento e stupore, studio, ricerca, attenzione: i game photographer possono essere fotografi, artisti, professionisti, ricercatori, giocatori. Da diversi anni sempre più videogiochi integrano strumenti (diegetici e non) per poter fotografare, ponendosi come dispositivi narrativi e metanarrativi. In Judgement, pubblicato nel 2018 da Sega, ambientato in un finzionale distretto di Tokyo, gli Npc reagiscono alla camera del protagonista, mettendosi in posa, vergognandosi, ignorandolo. La reazione fotografica – e al fotografico – è ormai divenuta uno strumento narrativo videoludico. Ci sono molti lavori interessanti dal punto di vista critico che riguardano la relazione tra fotografico, videogioco e mod. Ne è un esempio InstaDoom del modder Linguica, mod di Doom che sostituisce all’arma del Doomguy un selfie stick per poter ritrarsi nei luoghi infernali del gioco. È un argomento talmente interessante che potrei parlarne a lungo. Sicuramente merita di essere esplorato dal lavoro di ricercatori, giornalisti e artisti. Per quanto concerne il mio lavoro, game photography e machinima vanno spesso di pari passo, l’uno tendenzialmente influenza l’altro. Per Cheatimerism sono partito con l’intenzione di fare un lavoro fotografico. Tuttavia, facendo un recording del processo di lavorazione, ho seguito col farne anche un machinima. La registrazione della mise en scene, col posizionamento dei veicoli, è una vera e propria documentazione, un dietro le quinte se vogliamo. Viene mostrata un’incessante ripetizione delle seguenti azioni: spostamento dell’avatar, apertura della striscia di inserimento del cheat, scrittura del cheat, comparsa della vettura e di nuovo daccapo. A lungo andare questo processo ha assunto una dimensione quasi da autoipnosi, un mantra di azioni programmate. Penso di aver passato decine di ore a ripetere il processo e aver spawnato qualche migliaio di auto. Questo loop non è tanto dissimile dal “compra subito” delle piattaforme di e-commerce o dalla compulsione dell’acquisto. In un certo senso, questo atto in sé mi aveva dato la sensazione di una performance che stava danneggiandomi il corpo e intontendomi i sensi. Infine, una problematica a cui sono andato incontro riguarda la fisica delle vetture. Dopo numerosi spawn, infatti, i veicoli iniziavano ad intersecarsi l’uno nell’altro, rischiando di causare l’esplosione di uno di essi (che si traduce in un’esplosione a catena di tutti gli altri). Mi è capitato diverse volte. A quanto pare, ci sono modi e modi di esperire il dolore di una performance.
Luca Miranda, Cheatimerism, digital still, 1920 x 1080, 2020
Matteo Bittanti: I rifiuti, le scorie, la pattumiera tangibile e immateriale rappresentano la preoccupazione principale del Ventunesimo secolo. Dopo tutto, lo spreco è il risultato più significativo del capitalismo. Oggi lo scarto si accumula in tutto il mondo. Non solo il riciclaggio è un imbroglio - un vero cheat -, ma le multinazionali non fanno assolutamente nulla per fermare la proliferazione della plastica: semmai Big Oil sta investendo sempre di più in questo business e la Coca Cola, tra le altre, è del tutto indifferente all'ambiente: nel gergo aziendale, greenwash è l'imperativo categorico e sostenibilità è una mera scusa per inquinare di più. Semmai, gli ultimi cinquant'anni hanno dimostrato che il capitalismo e l'ambiente si escludono a vicenda. In che modo i videogiochi contribuiscono alla distruzione materiale del pianeta? E come possono gli artisti affrontare questo problema?
Luca Miranda: Una delle principali problematiche legate all’inquinamento e allo spargimento di rifiuti non è solo l’atto pratico di distruzione dell’ambiente, ma anche l’impronta ideologica che l’accompagna. Siamo invischiati in un rapporto consensuale tra una cultura del rifiuto e un rifiuto della cultura. Un aspetto difficile da inquadrare è quello della diffusa tendenza a confondere l’atto civico con quello che mi piace definire moda civica. Il rischio, ovvero, di assumere determinati comportamenti civici in base alle mode e necessità del momento. Se in un dato momento ci si preoccupa per la merda di animali domestici sulle spiagge, il momento dopo è necessario fare i conti con l’abbandono selvaggio di mascherine (che mi fa pensare a Plastic Bag di Ramin Bahrani) e il momento dopo ancora della comunione indiscriminata di merda, mozziconi e mascherine. Le multinazionali e paesi che prendono provvedimenti per l’abbattimento dei consumi di plastica e lo smaltimento di imballaggi e rifiuti elettronici sono gli stessi che provvedono all’arricchimento urbanistico e architettonico di luoghi come le montagne plastiche in Cina o gli E-Waste Graveyards fotografati da Kai Löffelbein. Mi viene alla mente una scena iconica di Guida perversa all’ideologia (2012) di Sophie Fiennes in cui il filosofo Slavoj Žižek, gustandosi una Coca Cola su di uno sfondo desertico, dichiara che, se gustata calda, la bevanda perde il suo potenziale magico e diviene piscio. Una volta provato l’allucinatorio effetto magico, l’inquinare e il consumare entrano in circolo come nostre routine, cariche di elementi ideologici. Nel momento in cui rispondo alle tue domande il mio laptop è acceso ormai da ore, sulla mia scrivania ci sono bottiglie di plastica e sono circondato da imballaggi Amazon. È efficace la frase che hai utilizzato: capitalismo e ambiente si escludono. Questo a mio dire è visibile anche nei videogiochi e non solamente da una prospettiva narratologica. Giusto in questo periodo sto lavorando e riflettendo sui significati rintracciabili nei videogiochi afferenti al genere survival con elementi di crafting. In molti videogiochi di questo tipo è possibile appropriarsi delle risorse reperibili da contesti naturali o selvaggi per i propri scopi produttivi, che siano usate al limite necessario per la sopravvivenza oppure per costruire enormi edifici. È possibile individuare dinamiche non dissimili dai processi produttivi e distributivi di realtà come Amazon. Logiche di acquisto compulsivo e scarto continuo sono individuabili in molti videogiochi commerciali degli ultimi anni. Si potrebbe in alcuni casi parlare addirittura di “fast-skin-fashion”. La questione di un ipotetico contributo dei videogiochi verso la distruzione planetaria potrebbe apparire come un eccesso speculativo, ma ci sono diversi aspetti che non possono non essere considerati. Oltre ai sostrati (e substrati) ideologici menzionati sopra, la stessa industria videoludica e il mondo dell’e-sport non solo diffondono un certo tipo di immaginario, ma, in quanto industrie di consumo, hanno un impatto tangibile sul nostro ecosistema. Quest’ultima cosa riguarda diversi livelli di consumo. Non si parla solo degli scarti elettronici o derivanti dalla produzione di prodotti di intrattenimento, ma anche dell’inquinamento prodotto dal download di software e prodotti. Gli artisti hanno un ruolo fondamentale ed è importante che attraverso il loro operato possano dialogare con un territorio e le comunità che lo abitano. Intendo questo in senso profondo: i territori sono anche quelli virtuali e le comunità sono quelle dei consumatori e dei videogiocatori. È importante che l’arte, nel suo essere un catalizzatore, come affermava McLuhan, si muova fluidamente in equilibrio tra il traumatico e il civico. Deve risvegliare il fruitore traumatizzandolo e civilizzandolo, scorrendo da opere come Tekken Torture Tournament (1999-2000) di Eddo Stern e Mark Allen a progetti artistici come Mutazione (2019) di Die Gute Fabrik. Il termine “cultura” deriva dal latino cŏlĕre, che rimanda all’atto del coltivare, ed è proprio questo che devono fare gli artisti: coltivare la cultura e il pensiero critico nelle persone.
Luca Miranda, Cheatimerism, digital still, 1920 x 1080, 2020
Matteo Bittanti: Attraverso i videogiochi, i giocatori possono vivere indirettamente la bella vita, ovvero quell'esistenza segnata dall'abbondanza, dalla decadenza e dall'eccesso che è inaccessibile alla maggior parte dei giocatori nella cosiddetta vita reale, e che pur tuttavia è presentata come il fine ultimo, l'obiettivo supremo. Grazie al video game, i giocatori possono acquistare beni altrimenti inaccessibili che usano per costruire e far circolare la loro identità brandizzata sui social media. In questo senso, i videogiochi commerciali aggiornano le pratiche di consumo cospicuo alla dimensione virtuale: tutte le auto (reali e virtuali) sono fondamentalmente uguali, ma la personalizzazione - nella maggior parte dei casi, una semplice verniciatura - le fa sembrare uniche, diverse, esclusive, dunque desiderabili. Una forma di distinzione, di demarcazione. I videogiochi sono dunque il nuovo oppio dei popoli?
Luca Miranda: Se la figura del flaneur richiedeva un vagabondare libero da impegni e doveri, il vagabondare videoludico odierno equivale al mantenere attivi più obblighi e doveri possibili. I videogiochi possono contribuire a diffondere schemi di comportamento (si veda anche solo lo slang videoludico) e, se il gioco è di successo, anche cambiare le abitudini dei consumatori. Prodotti come Second Life e World of Warcraft sono stati fondamentali per lo sviluppo degli aspetti legati alla ricchezza, alle ricompense e al benessere nei mondi virtuali. In Second Life posso comprare case e acconciature che nella realtà non avrò mai, Call of Duty: Warzone (2020) mi permette di avere un’incredibile collezioni di armi personalizzate, Fortnite (2017) mi concede un enorme armadio digitale per il mio vestiario. I videogiochi divengono fonti di possibilità – the videoludic way of life – che sopperiscono a determinate mancanze. Gli sviluppatori dell’atteso Cyberpunk 2077 hanno riferito che il livello di personalizzazione dell’avatar sarà tale da poter addirittura scegliere la conformazione del membro maschile, vagina e peli pubici. Anche le protesi digitali con cui interagiamo subiscono incessanti processi di riciclo. Non sarebbe così strano se il nostro avatar maschile venisse scartato perché incapace di mantenere un’erezione, come nel film 964 Pinocchio di Shozin Fukui. L’esempio che hai posto nella domanda inerentemente la relazione tra ripetizione e personalizzazione è del tutto adeguato. Sembra che man mano che le possibilità di personalizzazione aumentino – proporzionalmente all’aumento dei prodotti acquistabili – gli stampi e le matrici tendano ad assottigliarsi. Ciò non è inteso in un senso artigianale del termine, come potrebbe riguardare l’uso di un torchio tipografico, ma relato a dinamiche attuali come la cosiddetta obsolescenza programmata, bene o male sempre presente, e gli scarti elettronici. Ci sono aspetti legati al consumo videoludico che non possono essere sottovalutati. Quella del videogioco è un’industria da (circa) 120 miliardi di dollari e il continuo afflusso – e reflusso – di prodotti che posano su determinate narrazioni e retoriche hanno il potere di esercitare un effetto oppiaceo su chi li consuma.
Luca Miranda, Cheatimerism, digital still, 1920 x 1080, 2020
Matteo Bittanti: Cheatimerism mostra file di auto Rapid GT e camion della spazzatura Trashmaster di Grand Theft Auto V. Il primo simboleggia la potenza, la velocità e quel tipo di estetica volgare così prominente tra i parvenu così come tra le élite. Il secondo è l'inevitabile conseguenza di un consumo cospicuo: la spazzatura è ciò che accade quando l'eccitazione della novità svanisce o quando stare al passo con i Jones richiede un aggiornamento costante. Dopotutto, l'obsolescenza tecnologica è insita in qualsiasi prodotto e il circolo vizioso continua ad una velocità ancora maggiore. Questo meccanismo non è solo radicato nella società capitalista ma anche nel videogioco, che ne è l'espressione sovrastrutturale. Come ti relazioni ai videogiochi commerciali che rafforzano l'ideologia neoliberista dominante?
Luca Miranda: La domanda oltre a essere molto interessante è decisamente complessa, quindi spero di poter rispondere nel modo più adeguato. La maturazione dell’ideologia neoliberale, e la strutturazione del pensiero occidentale, ha forti radici nell’industrializzazione, nei processi di misurazione della felicità e nella concezione del tempo libero. Dopo che nel 1880 Rudolf Clausius definì il concetto di entropia, si diffuse una preoccupazione generalizzata sulla possibilità che il lavoro nelle industrie stesse devastando fisicamente le persone. In tal senso, il grinding, termine che nei videogiochi rimanda al compiere continuamente lo stesso tipo di azioni, può essere visto nella prospettiva di un lavoro salariato. Già nella prima metà dell’Ottocento iniziò a delinearsi una linea di management orientata all’ottenimento di uno stato di felicità e soddisfazione da parte del lavoratore e poi del consumatore, studiandone le azioni (fisiche e decisionali) e i modelli comportamentali. Oggi la staffetta è passata ai Big Data, alla Data Analysis e ai dispositivi che ci accompagnano o indossiamo. Se visitando un e-commerce online le mie preferenze e i miei comportamenti d’acquisto vengono rilevati, acquisiti e catalogati, nel videoludico essi vengono investiti di uno statuto che lega attività lavorativa e tempo libero. Già nel 2006 la studiosa Celia Pearce ha asserito che i confini tra gioco e produzione, tra lavoro e tempo libero, tra consumo mediale e produzione mediale sono sempre più sfumati. I videogiochi commerciali integrano compiti e attività che inducono il giocatore a non averne mai abbastanza. Integrazioni come i DLC (downloadable content) e determinati sistemi di feedback e ricompensa servono per ampliare questo processo di “libero dovere”.
Luca Miranda, Cheatimerism, digital still, 1920 x 1080, 2020
Matteo Bittanti: I cumuli di rifiuti che vediamo nel nostro ambiente sono la forma d'arte più importante che la nostra cultura ha prodotto? Se sì, le discariche sono i nostri più grandi musei? I rifiuti hanno una natura scultorea intrinseca che può essere modellata anche nella dimensione digitale? Qual è la logica sottesa al posizionamento dei veicoli in Cheatimerism?
Luca Miranda: Se guardiamo ai rifiuti come oggetti neutri è innegabile che essi acquisiscano un diverso significato a seconda del contesto in cui si li inserisce, il loro posizionamento e la loro funzione. La stessa storia dell’arte è composta da epoche in cui una certa tipologia di oggetti rappresentano forme dell’arte, mentre altre forme rifiutate. I quadri avanguardistici che venivano posizionati molto in alto, lontano dallo sguardo dell’osservatore, nelle mostre d’arte borghesi sono comparabili ai beni non meritevoli di comparire in prima fila nelle vetrine dei negozi. Mi si potrebbe inveire contro affermando che non è possibile comparare queste due classi di oggetti. È giustificabile. Ma gli oggetti di cui ci disfiamo non ci chiedono di essere buttati: è la cultura di cui siamo imbevuti che ce lo richiede in continuazione e proprio a causa di essa gli oggetti nascono con lo specifico scopo di essere buttati. Ad un certo punto potrebbe diventar difficile distinguere La Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto dalla bambina rivolta verso il pattume nel documentario Plastic China (2016). L’ineluttabilità del disfacimento degli oggetti è direttamente proporzionale all’ineluttabilità del nostro decadimento. Ma non potrebbe essere altrimenti, poiché la società che richiede incessantemente felicità, positività, salute e che utilizza slogan motivazionali come “sii te stesso”, “credi nelle tue capacità”, “puoi contare solo su te stesso” è abitata da persone che non possono fare a meno di richiedere l’ultima novità sul mercato. Anche i contributi dei grandi poeti divengono rifiuti: ho visto il fallimento di Beckett stampato su di una tazza buttata in discarica non troppo tempo fa. Se l’arte può essere considerata un discorso visuale e critico all’interno di una specifica epoca, in questo senso le discariche possono essere il contenitore di una nuova forma d’arte. Con questo non voglio dire che qualsiasi scarto nelle discariche è ascrivibile ad opera d’arte, sarebbe quantomeno naif. Ma se le si guarda da una certa prospettiva il loro statuto (delle discariche) è comparabile a quello delle opere Site-specific o di Land art. Un’impronta, una traccia in un luogo che serve non solo a generare un dialogo con un territorio, ma anche a stimolare una riflessione critica. Nel caso delle discariche la riflessione critica è sostituita da una relazione acritica, che aumenta proporzionalmente all’aumentare della massa di rifiuti che produciamo. In Cheatimerism ho voluto usare una funzione del sistema (il cheat) come registro discorsivo e due modelli di veicoli (Rapid GT e Trashmaster) come attori. Essi incarnano le dinamiche di produzione – del lusso, ma non solo – e di smaltimento del prodotto: ammassati in cumuli, formano uno stemma nazionale ed una stele funebre al contempo. In questo senso, la figura dell’autovettura è paradigmatica: un oggetto di culto facilmente sostituibile, riciclabile, dimenticabile. Un oggetto di ingombro (materiale, simbolico, inquinante) e sgombro (oggetto di rottamo per eccellenza, in grado essere trasformato in un cubo metallico). È emblematico il fenomeno delle auto di lusso abbandonate per la città di Dubai, simbolo dell’eccesso consumistico e del collasso finanziario. Qui le marche più lussuose divengono artefatti che predicono lo scenario apocalittico visibile in videogiochi, cinematografia e altre produzioni mediali.
Matteo Bittanti: La colonna sonora di Cheatimerism mescola diverse fonti: c'è l'audio del gioco ma anche contenuti ad hoc. Può descrivere il suo processo e il suo intento?
Luca Miranda: L’intenzione originaria era quella di mantenere lunghi piani sequenza in cui l’unico paesaggio sonoro era dato dai suoni presenti nel gioco. Questo aspetto è rimasto. Mi piace l’idea che le sonorità generate dai veicoli si mescolino con i rumori della quotidianità simulata nel gioco, quali il movimento delle onde, il garrito dei gabbiani, il parlottare delle persone, il fruscio del vento, eccetera. I veicoli che ho ammassato producono una vera e propria orchestrazione: vociferano, in alcuni casi erompono sferragliando, altre volte tacciono; sono presenti una sorta di socialità e organicità implicite. La fascinazione nei confronti del linguaggio metallico emesso dalle vetture e il loro agitarsi nervoso lo devo al lavoro di Alexander Brenton Smith, che è stato di grande ispirazione. Per quanto concerne la traccia audio inserita successivamente il discorso è un po' diverso. Si tratta di una registrazione in presa diretta di un’improvvisazione a due chitarre suonate da me e dal musicista e sound designer Domiziano Maselli. Nel corso degli anni abbiamo sperimentato sull’improvvisazione musicale, creando cartelle contenenti vari campioni audio. La volontà non era il creare tracce audio per opere specifiche, ma una libreria che contenesse composizioni e suoni utilizzabili a seconda del mood richiesto da un determinato lavoro. Pertanto, la traccia audio usata per Cheatimerism è considerabile un mood-sample che ho utilizzato per voler esprimere un certo tipo di sensazione durante la fruizione del video. Incertezza e straniamento sono due sentimenti che volevo attivare. Non so se ci sono riuscito, ma è anche vero che date composizioni di suoni e rumori attivano reazioni anche molto diverse tra fruitore e fruitore. Inoltre, della traccia originale ho rallentato la velocità e oscuratone leggermente il timbro. Mi affascina l’idea che un sample possa essere manipolato fino a ri-generarsi in una nuova forma.
Luca Miranda, Underw[h]e(a)re, digital still, 3840 x 2160, 2020
Matteo Bittanti: Il feticcio è un tema ricorrente nel tuo lavoro. In Cheatimerism, sono le auto ad essere feticizzate, mentre nel tuo nuovo progetto UNDERW[H]E(A)RE, è il corpo femminile ad essere oggettivato dalla camera virtuale del videogioco per il piacere del (presunto) giocatore maschio. Che tipo di sguardo è in gioco in questi due progetti?
Luca Miranda: Feticizzazione, abuso, replicazione sono sicuramente aspetti fondamentali del mio lavoro e del rapporto col videoludico. I mondi videoludici sono retti da rapporti con feticci: il giocatore dimentica la natura di un oggetto in sé (che può essere un Npc, il modello 3D di un oggetto, la geometria del level design), attribuendogli una propria definizione valoriale. Però questo discorso vale fino a un certo punto. Preferisco, piuttosto, rivolgermi al termine fatticcio utilizzato da Bruno Latour. Secondo quest’ultimo non serve instaurare una distanza fondamentale tra prodotto e produttore, oggetto e soggetto. Poiché tale distanza è sempre colmata dallo spostamento che il prodotto opera sul produttore. Ovvero, siamo sempre superati da ciò che produciamo. E questo vale anche per lo sguardo, un dispositivo modellato dalla tecnologia che utilizziamo e che ci modella a seconda degli usi canonizzati. Un esempio ne è la relazione tra streamer, osservatore, prodotto videoludico e tecnologia di visione. Si crea una sorta di paradosso in cui chi guarda (compresa la tecnologia, la quale può interpretare le nostre espressioni e analizzare i nostri sentimenti) è sempre guardato. Non ci siamo allontanati troppo dalla dinamica ontologica del Kaiserpanorama di August Furhmann. In Cheatimerism e in UNDERW[H]E(A)RE sono in gioco due tipologie di sguardo fortemente radicate nella storia e nell’esperienza videoludiche, lo sguardo del possesso e quello del dominio. Non uso i termini per indicare esclusivamente un uso coercitivo dell’atto del guardare. Di fatto, l’atto e la volontà di possedere e di dominare possono esistere anche laddove non è possibile individuare una violenza esplicita. Nel caso di Cheatimerism, lo sguardo dell’osservatore è parallelo alla popolazione di Npc che abita San Andreas. Quest’ultima esplicita la stessa relazione che intratteniamo coi prodotti di consumo di cui abusiamo. Magari qualche passante si ferma incuriosito dall’ammasso di auto, ma alla fine gli output sono sempre due: o l’Npc tira dritto, oppure rimane incastrato tra questi residui del libero mercato, continuando comunque le routine che stava svolgendo. Anche lo sguardo del videogiocatore è spesso impigliato in reti retoriche di cui non si rende conto o a cui contribuisce mantenendo inalterata la propria routine performativa. Per quanto concerne UNDERW[H]E(A)RE, invece, abbiamo più a che fare con una dinamica da peep-show. La camera (l’occhio dell’utente) si posiziona in un punto privilegiato rispetto allo sguardo della popolazione virtuale. La cosa interessante degli Npc femminili in UNDERW[H]E(A)RE è il fatto che non sia tanto importante il cosa vedere – la lingerie è sempre la stessa – ma proprio il fatto di poter vedere.
Luca Miranda, Underw[h]e(a)re, digital still, 3840 x 2160, 2020
Matteo Bittanti: UNDERW[H]E(A)RE è un'esplorazione 'intima' del dessous di oltre cento personaggi virtuali di Assassin's Creed: Unity. Quello che trovo affascinante del tuo progetto - una tassonomia visiva delle sottovesti digitali - è che dimostra chiaramente che il concetto di classe è manifesto anche laddove dovrebbe essere invisibile o assente. Solo le parti private dei personaggi aristocratici sono simulate nei dettagli, mentre quelle della classe inferiore sono generiche, indistinte, quindi poco attraenti in chieve erotica. Così, invece di essere il grande equalizzatore, i videogiochi sembrano rafforzare le disuguaglianze della vita reale. Qual è il ruolo dei giochi nel plasmare l'immaginario collettivo?
Luca Miranda: Esattamente. In Assassin’s Creed: Unity non solo è possibile vedere unicamente la biancheria intima dei personaggi femminili più agiati – almeno per quanto concerne il vestiario – ma l’interesse non riguarda nemmeno la biancheria in sé. Come dicevo, sopra, riguarda il fatto di poter vedere proprio quel particolare. Ciò rivela una certa tendenza nella progettazione videoludica. Ovvero, il pornograficizzare elementi e modelli del gioco per soddisfare uno sguardo desiderante e tendenzialmente maschile. È uno dei meccanismi narrativi dei videogiochi commerciali. Ci può essere anche un grado estremo di personalizzazione e di selezione dell’etnia del proprio personaggio, ma si tratta appunto di personalizzazione. Il ruolo dei personaggi (nel mainstream, ma anche in molta produzione indipendente) tende sempre, bene o male, a rispecchiare modelli e dinamiche di tipo militarista, patriottico e cameratesco. Nel caso degli NPC femminili in UNDERW[H]E(A)RE il loro unico scopo è l’essere guardati. Un giocatore potrebbe benissimo non farlo lungo tutto il gioco, tuttavia la possibilità è lì. Basta solo mettersi sotto la gonna della donna giusta. Come hai anticipato nella domanda, provando a scivolare con la camera sotto i vestiti di modelli femminili meno abbienti non è possibile visualizzare nulla, se non il vuoto celato dalle vesti esterne. Questa cosa potrebbe essere ricondotta solo a una necessità tecnica, ma sarebbe un errore. Vi sono infatti una serie di tensioni sottese alla cultura del videoludico e rappresentazioni che fungono da modelli operativi per l’immaginazione collettiva. In un’epoca attraversata da tematiche relative alla differenza culturale, etnica, sociale, merceologica (eccetera) la forza del capitalismo monopolista e dell’omologazione acritica sono più che mai attive. Le forme rappresentative nei videogiochi esplicano il funzionamento dell’industria dell’intrattenimento e dei complessi ecosistemi videoludici con cui ci deliziano. Si attua un nascondimento dei meccanismi fondamentali e la manipolazione di gusti, idee e ideali (consci e inconsci).
Luca Miranda, Underw[h]e(a)re, digital still, 3840 x 2160, 2020
Matteo Bittanti: I videogiochi e la pornografia si basano su imperativi estetici simili - l'eccesso, il grottesco, l'osceno - e producono piaceri simili. Sono anche performativi e meccanici nella loro esecuzione. Ci insegnano anche cosa desiderare e come desiderare. Come UNDERW[H]E(A)RE si relaziona ai regimi visivi dominanti? Come può il machinima colmare il divario tra lo spettatore e la realtà simulata?
Luca Miranda: La relazione tra pornografia e videogioco è più forte di quanto sembri. Sia sotto un aspetto prettamente estetico e rappresentativo, sia per quanto concerne desideri, ideologie e condizionamenti. Mi viene alla mente il boom che c’è stato intorno alla figura di Bowsette a fine 2018, oppure il secondo posto in classifica di Fortnite come trend di ricerca su Pornhub nel 2017. Queste sono solo trasposizioni superficiali – o trascendenze – però anch’esse dicono molto rispetto ai meccanismi di piacere e desiderio endemici nei mondi virtuali. L’eccesso del pornografico e il dolore e il piacere legati all’esperienza videoludica sono bloccati in un incessante loop di sistema; tant’è che si arriva ad un punto in cui è difficile separare il concetto di libertà di fruizione da quello di consumo (visivo, tattile, multisensoriale) pornografico. Il videogioco commerciale stimola il famoso godimento lacaniano sintetizzato dal “Godi!” di Žižek. Gli inesauribili compiti nei videogiochi – missioni secondarie, DLC, eccetera –, sempre più estesi, servono a mantenere nascosto il loop del sistema, il continuo riciclo di meccanismi e retoriche. Per quanto riguarda UNDERW[H]E(A)RE, non vuole tanto affrontare un discorso verso il regime visivo preponderante dell’intrattenimento contemporaneo quanto rendersi il regime visivo stesso attraverso il quale i videogiochi ci insegnano come, cosa e quanto desiderare. Penso che il machinima possa aiutare a compiere un distacco critico necessario, mostrando le contraddizioni insite nelle nostre narrazioni e nei nostri strumenti e aprendo in questo modo un dialogo verso tali problematiche.
Luca Miranda, Underw[h]e(a)re, digital still, 3840 x 2160, 2020
Matteo Bittanti: Il titolo del suo lavoro allude a uno spazio, a un tempo e a un bene materiale, evocando così la natura stessa dei videogiochi che sono al tempo stesso un prodotto e un'esperienza situata, una pratica temporale e un dispositivo tecnologico. Quale autonomia ha il giocatore all'interno di questo rapporto? E come si differenzia da quella dell'artista?
Luca Miranda: Una delle capacità dei mondi digitali è quella di aprirsi su più dimensioni contemporaneamente. Purtroppo, c’è la tendenza ad usare frasi accattivanti come “oggi siamo tutti giocatori” per giustificare costrutti terminologici come la cosiddetta gamification. Termini come questo, legati generalmente al marketing e al social management, non fanno altro che confondere le cose relative alla cultura del gioco e alla cultura videoludica. Nonostante la continua pubblicizzazione di possibilità e upgrade sembra quasi che il ruolo del giocatore venga sempre più passivizzato. All’interattività subentra facilmente una dinamica interpassiva. C’è una differenza fondamentale tra l’artista e il consumatore di un prodotto. Entrambi sono utenti, ma l’artista avvia una relazione di gioco e assume un atteggiamento critico nei confronti di un’opera (anche se dovesse trattarsi della quarta o quinta run), mentre il gioconsumatore (posso chiamarlo così?) si consuma nel gioco allontanandosi da una presa di coscienza del suo operato. In tal senso, l’artista non deve essere visto come una figura elitaria, tutt’altro: il consumatore può diventare tale, se si appropria degli strumenti messi a sua disposizione. Lo fanno i modder, gli artisti di Game art, gli youtuber che rompono i codici dei giochi per mostrarne le “strutture invisibili”, persino i cheater in un certo senso.
Luca Miranda, Underw[h]e(a)re, digital still, 3840 x 2160, 2020
Matteo Bittanti: Cosa rimane irrealizzato? C'è qualcosa che vorresti aggiungere?
Luca Miranda: Fortunatamente c’è sempre qualcosa da aggiungere, anche se ho l’impressione di essere stato dannatamente prolisso. Un aspetto che a mio parere varrebbe la pena di essere indagato è la relazione tra cultura videoludica e cultura del rifiuto (nel senso discusso addietro), nella dimensione estetica, narrativa, sociale e politica. Un’altra cosa interessante sarebbe indagare le ipotetiche trasformazioni della tecnologia dello sguardo degli avatar la cui testimonianza è lasciata a loro stessi. Lavori intriganti in tal senso sono stati portati avanti da Brent Watanabe e Joseph DeLappe, rispettivamente con San Andreas Deer Cam (2015-2016) e Elegy: GTA USA Gun Homicides (2018). Ma cosa succederebbe se invece la visione di questi ecosistemi digitali fosse lasciata agli attori virtuali stessi e l’essere umano venisse messo da parte?
LINK: VRAL #13: LUCA MIRANDA (13 NOVEMBRE - 26 NOVEMBRE 2020)
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